Il 2 agosto di 35 anni fa, una bomba esplose alla stazione di Bologna e provocò l’eccidio più orrendo e sanguinoso nella macabra storia della “strategia della tensione”, che ebbe inizio nel 1969 con la bomba di piazza Fontana, a Milano, con una sequenza terrificante di episodi stragisti fino al Rapido 904 nel 1984. All’origine di questo “diabolico” disegno politico-strategico di “destabilizzazione neo-conservatrice” (che si potrebbe sintetizzare nella formula andreottiana “destabilizzare per stabilizzare”) agirono sia i servizi segreti (interni ed internazionali) che le forze politiche dell’asse filo-governativo che ruotavano attorno alla Democrazia Cristiana. Ma la manovalanza operativa, quella che mise in atto le stragi, venne reclutata tra i militanti degli ambienti neofascisti. Le finalità immediate e contingenti furono di suscitare, nel Paese, un clima psicologico e politico che legittimasse ed evocasse svolte politiche di segno autoritario e repressivo, per ricompattare in tal modo il blocco di potere attorno alla DC ed alle false istituzioni “democratiche” borghesi. Ma ad accelerare gli avvenimenti intervenne la crisi economica che iniziò a manifestarsi alla fine degli anni Sessanta con pesanti ripercussioni sul mondo del lavoro. Fu il periodo delle prime, vaste ristrutturazioni industriali, che servirono ad intensificare i ritmi di produzione, causando licenziamenti massicci tra gli operai, col ricorso sistematico alla cassa integrazione. La risposta operaia non tardò a manifestarsi soprattutto in quei settori trainanti dell’economia italiana, nel “triangolo industriale” Torino-Genova-Milano. Il timore principale della borghesia capitalistica, fu che tali lotte operaie (che, nel frattempo, si agganciarono alle iniziative di contestazione del movimento studentesco) potessero sfuggire di mano ai sindacati, assumendo così un livello di qualità e di consapevolezza politica, di capacità strategica ed organizzativa, tale da poter scompaginare il quadro di potere e dei rapporti di forza allora vigenti.