Se è vero, come dice Milan Kundera, che “Gli scrittori di romanzi insegnano al lettore a considerare il mondo come una domanda” “Il sogno di Safiyya”, ai quesiti che solleva, corrisponde risposte chiare e nette e forse, per tale motivo, potrebbe essere definito un romanzo di formazione, ossia, uno di quei libri che non cessa di essere importante una volta riposto nello scaffale di casa; un libro che, dopo essere stato letto, ha bisogno di sedimentare nella nostra coscienza per poter depositare il suo messaggio e i valori di cui vuole essere veicolo, valori che restano incisi dentro, nell’anima.
L’espediente narrativo, in cui si alternano tempi e luoghi, attribuisce un certo movimento alla trama resa ancor più avvincente dai colpi di scena e dai personaggi arcani. Il reporter Jan, io narrante della vicenda, dopo aver conosciuto la ripugnanza del conflitto balcanico, e grazie alla vecchia amicizia con Youssuf e la figlia Safiyya, immigrati dal Marocco in Italia e che tempo addietro, grazie alle loro istanze morali e solidali, hanno contribuito a definire la sua idealità, al rientro da Sarajevo convince Safiyya a seguirlo nel villaggio di Nevè Shalom, fulcro della vicenda: un luogo, quasi surreale, dove convivono quietamente praticanti di ogni credo, una terra in cui il sogno di pace di Safiyya sembra potersi finalmente realizzare. Sarà l’amore per un uomo dai trascorsi oscuri a complicare l’esistenza della ragazza; ma tutto ha un senso nella formazione dell’individuo, nulla avviene per caso e la strada della verità non è mai una sola. Tuttavia l’appello è limpido: la tolleranza, il rispetto e la volontà di comprendere, sono l’unico antidoto possibile contro la ferocia delle guerre degenerate da ogni tipo di diseguaglianza sociale.
Il narratore si apprezza soprattutto per la capacità di immedesimarsi nei personaggi, e nei loro diversi punti di vista, senza assumere mai atteggiamenti giudicanti; ma anche per la dialettica, vivace e intima, con la quale riesce a relazionarsi, fitto fitto, col lettore. La penna mostra un inconfondibile taglio agile e incisivo, dal linguaggio preciso e chirurgico, in cui le descrizioni essenziali hanno l’immediatezza di una fotografia; una scrittura capace di far emergere in modo nitido e sintetico, tralasciando le evocazioni, ogni stato d’animo caricando ogni immagine di una forte fisicità e suggerendo interpretazioni alternative a questo mondo scontato e al contempo ancora enigmatico per la disumanità a cui è avvinghiato. E se questo romanzo fosse una fotografia piacerebbe a James Nachtwey il quale sosteneva che “un fotografo di guerra” (nel caso di Nuccio Franco/Jan un reporter di guerra) “ è per definizione contro la guerra”; l’artista, coi suoi scatti non voleva mostrare la storia, quella con la s maiuscola, o la guerra in generale ma la tragedia del singolo uomo o di una famiglia. La crudeltà peggiore, infatti, è nel dettaglio, quel dettaglio che solo i grandi lettori dell’animo umano sanno raccontare. Come in questo romanzo.