RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – ROMA – Si è appena conclusa la cerimonia laica, tenutasi in Campidoglio, per ricordare Renato Nicolini, architetto, intellettuale poliedrico, diventato famoso quando da assessore alla Cultura del Comune di Roma inventò l’Estate romana, dando il “la” a una serie di iniziative simili che da allora si susseguono in ogni città d’Italia.
Il nome di Nicolini resta però indissolubilmente legato anche all’esperienza del “Rinascimento napoletano” che lo vide protagonista della città partenopea durante la giunta Bassolino. E proprio a Napoli e al sud è dedicato il suo ultimo libro, recentemente edito da Rubbettino, che vogliamo riproporre all’attenzione del nostro pubblico come omaggio alla memoria di questo acuto intellettuale. Il libro si intitola “L’oro della memoria” e nasce come colloquio con Piero Lo Sardo, ingegnere, umanista e conoscitore della Magna Grecia, morto anch’egli nel 2001. Come ricorda Nicolini nello scritto introduttivo il libro era nato quasi come un instant book, poi riposto nel cassetto è riemerso diversi anni dopo la morte di Lo Sardo perché tornato di grande attualità di fronte allo scempio dei beni culturali cui oramai si assiste da tempo in Italia.
Il nome di Nicolini resta però indissolubilmente legato anche all’esperienza del “Rinascimento napoletano” che lo vide protagonista della città partenopea durante la giunta Bassolino. E proprio a Napoli e al sud è dedicato il suo ultimo libro, recentemente edito da Rubbettino, che vogliamo riproporre all’attenzione del nostro pubblico come omaggio alla memoria di questo acuto intellettuale. Il libro si intitola “L’oro della memoria” e nasce come colloquio con Piero Lo Sardo, ingegnere, umanista e conoscitore della Magna Grecia, morto anch’egli nel 2001. Come ricorda Nicolini nello scritto introduttivo il libro era nato quasi come un instant book, poi riposto nel cassetto è riemerso diversi anni dopo la morte di Lo Sardo perché tornato di grande attualità di fronte allo scempio dei beni culturali cui oramai si assiste da tempo in Italia.
Proponiamo di seguito una riflessione di Nicolini tratta dalle prime pagine del volume che a nostro avviso sintetizza meglio di tante altre parole quello che lo studioso pensava delle politiche culturali nel Bel Paese:
“La politica italiana – anche ai tempi dell’aprile dell’Ulivo, dell’entusiasmo per Prodi e Veltroni – ha l’abitudine di guardare alla libertà della cultura con la diffidenza ineliminabile di chi la misura dalla funzionalità al proprio progetto.Ci siamo spesso domandati perché questo avvenisse, perché questa difficoltà a comprendere l’importanza di istituzioni – o comunque esperienze – che non abbiano altro vincolo che la ricerca, autonoma e sperimentale, della verità. Prima della politica, che è governo della società, arte del possibile per definizione, c’è infatti la capacità della società di rinnovarsi o meno, di sapere conservare o meno memoria di se stessa. Senza queste, non solo non è possibile alcun tipo di progetto, ma la cultura si dissecca, fuori di metafora, si riduce a ornamento, o – peggio – a strumento di consenso. Comunque sia, la direzione dell’autonomia non è la direzione in cui si è mossa la riforma Veltroni-Melandri del Ministero dei Beni culturali, che ha ribadito al contrario – in tutti i modi – il criterio della centralizzazione (un segretario generale, dieci direzioni generali, l’isti -tuzione dei sopraintendenti regionali per coordinare anche a livello orizzontale le Sopraintendenze, ecc.). Credo che anche Piero sarebbe d’accordo nell’affermare che è questa voglia (non troppo segreta) di controllo – un’esasperazione di quell’idea del primato della politica, che purtroppo appartiene al codice genetico dell’Italia unita, non nella versione alta di Machiavelli, ma nella sintomatica frase di Cavour: l’Italia è fatta, occorre fare gli italiani – ad avere ostacolato il possibile rinnovamento della cultura italiana. Salvatore Settis lo ha detto molto bene in Patrimonio S.p.A. – l’attacco distruttivo, l’incomprensione profonda del perché sono importanti i beni culturali, irriducibile a parametri economicisti – è cominciata molto prima dello sciagurato Tremonti. Non solo non ne sono stati affatto esenti i governi dell’Ulivo, che hanno funzionato da apripista – rimando sempre a Settis. Ma, molto prima della metafora del petrolio d’Italia di De Michelis e della pretesa di estrarlo con la trivella informatica dai giacimenti culturali, a ben vedere è stato proprio “il Ministero voluto da Spadolini” (come recita ancora l’agiografia politica ufficiale) a dare il primo colpo di maglio ad un settore fino ad allora cresciuto come una rete di poteri specialistici e autonomi, che aveva saputo attraversare lo stesso ventennio fascista. Era sbagliata proprio l’idea di dare un metro comune (da depositare presso la burocrazia del nuovo ministero anziché a Sevrès) all’Italia delle cento città. Lo specialista differisce dal burocrate proprio per la capacità di impostare e risolvere problemi che sfuggono, proprio per la natura del bene culturale, all’ideologia ed ai suoi formulari. Questo non significa, per chiarezza, frantumazione regionalistica degli uffici – il campo d’azione è unico, i beni culturali definiscono proprio la (mobile) identità nazionale.
Ma, se si vogliono interventi efficaci, l’unico metodo perseguibile è la ricerca della massima qualità possibile,senza illudersi che questa possa essere assicurata da dettagliati formulari.” (Renato Nicolini)