Lo spartiacque potrebbe essere il 1973. Per l’esattezza il febbraio di quell’anno. Quando gli Osanna, un gruppo di rock progressive che sin dalla nascita, qualche anno prima, aveva riscosso un significativo successo, decide per i suoi live di utilizzare trucco, costumi di scena e ricorrere a regista e attori esterni. Avevano già inciso Palepoli, uno degli esempi migliori del genere, costruito di due pezzi che dialogano su tradizione e modernità nel confronto tra generi antichi e moderni, con canzoni napoletane mescolate al blues. La band decide di trasformare il disco in uno spettacolo che mette a confronto l’antica Palepoli con la moderna Napoli e per il tour teatrale la regia viene affidata ad Antonio Neiwiller mentre il giovane Tonino Taiuti, già noto per i suoi interessi musicali, viene chiamato per interpretare il ruolo di Pulcinella.
Di estrazione popolare, educato alla canzone dalla voce limpida di mamma Elvira e alla musica contemporanea dai suoi personalissimi interessi, per Taiuti l’esperienza di Palepoli ha un valore riflessivo, perché il Pulcinella gli svela il suo mondo e gli indica la strada verso quegli autori popolari che già gli appartengono e che diverranno le sue principali prove d’attore come Petito e, soprattutto, Viviani.
Siamo negli anni Settanta, quelli caratterizzati dalla riscoperta di quel mondo popolare subalterno che viene letto come cultura di contestazione ma anche come alternativa alla società borghese. Solo che Taiuti si confronta in maniera sempre più radicale e profonda con la rappresentazione poetica e teatrale di quel mondo, lavora con Neiwiller che lo guiderà verso aperture internazionali facendo interagire Petito e Brecht, il varieté e il Dada… in creazioni uniche come Don Fausto, dove Taiuti riveste ancora i panni di Pulcinella e, a seguire, quelli che poi sono diventati i suoi cavalli di battaglia, come la Piedigrotta Viviani.
Un attore e un regista, due artisti, due amici le cui strade rimarranno intrecciate indissolubilmente… sullo sfondo di una città sulfurea, dove il passato non passa – almeno fino a quegli anni – ma viene declinato in una varietà di esperienze linguistiche e artistiche. Un sodalizio che si rinnoverà negli anni Ottanta con Silvio Orlando, con cui Taiuti condividerà il palcoscenico ma non solo (resta memorabile lo spettacolo Due uomini e un armadio). Un mondo poetico che troverà riscontri nel lavoro poi realizzato con Mario Martone e Toni Servillo, che condividerà con Enzo Moscato, e troverà nuove incarnazioni nell’attuale scambio con Lino Musella.
Ma è da subito che Taiuti comincia a sperimentarsi in territori vicini e analoghi, abbattendo così quel limite che separa le creazioni artistiche ma non le singole biografie. Frequenta, sempre di più, la musica formando con Paolo Vitolo un gruppo stabile di ascolto: al mattino la musica contemporanea, e al pomeriggio Albert Ayler, Sun Ra e Ornette Coleman… per costruire poi un personale percorso di educazione e conoscenza che lo guida verso il noise, il free rock e, nell’ultimo periodo, la musica elettronica di Throbbing Gristle, Coil e Swans. Tanto il tempo per ascoltare o riascoltare Gilda Mignonette e Ria Rosa, Pasquariello e Sergio Bruni lo si trovava sempre…
In parallelo non gli manca di provarsi con la pittura, cercando di trasferire quei sentimenti espressi sulla scena e rappresentati in teatro sulla carta, incominciando così a “imbrattare” tele. Come prima cosa si sperimenta con il collage realizzando una rappresentazione della Piedigrotta Viviani: gioca tra futurismo e napoletanità, aggiungendo inserti con figure e ritagli con ritratti dell’autore. Ma basta poco perché la tecnica del collage si stratifichi: si aggiungono colori e quei frammenti di carte, varie e diverse, vengono mantenuti assieme dalla tempera che dà materialità alle opere. Come ad esempio l’ironico Teschio musicale realizzato con una partitura che sagoma un teschio su sfondo scuro, cui sono sovrapposti ritagli di volti, figure e linee musicali che definiscono ulteriormente la spettralità del resto umano.
Tonino Taiuti, naturalmente curioso e dotato di una fame onnivora di sapere, non si fa mancare le frequentazioni di artisti che riconoscerà come maestri: Enrico Cajati e Salvatore Vitagliano.
Ed è così che dal teschio si passa, quasi immediatamente, al volto umano; vengono aggiunti carne e sangue, cioè colore e spessore, in modo da modellare sempre più le facce in un crescendo che arriva ai giorni nostri. Si tratta di volti che appaiono bloccati, fermi, immobili, come se fossero ritratti, spesso cupi, altri bui, altri ancora tagliati da saette e da fasci di luce o accompagnati da qualche colore che dallo sfondo lancia lievi segnali di speranza.
I volti si evolvono, come si può vedere nei quadri esposti in questa sede, scelti tra i più recenti, oppure come quelli nella mostra visitabile ancora per qualche giorno fino al 7 dicembre, Umano & umano, condivisa con Alfonso Marino nella sala Vittorio Imbriani della Biblioteca Universitaria di Napoli di via Paladino 39.
Ma le facce sono ancora una volta un punto di partenza. Perché subito dopo seguono le variazioni, le aggiunte e gli approfondimenti. E così si moltiplicano e si trasformano: ritornano i collage, si declinano al femminile e al maschile, ma nello stesso tempo si allungano, si incupiscono e pian piano perdono la definizione umana; riappaiono le scimmie, che sono state una sua vecchia passione pittorica, poi i volti assumono pian piano tratti animali riconoscibili fino a prendere l’espressione di ritratti immaginari, maschere scomposte con lineamenti disallineati. In un percorso che lo porta a raggiungere il grado zero, l’essenza minima, il teschio.
In parallelo però Taiuti apre anche un’altra strada di sperimentazione e ricerca che ha come prototipo la figura di Pulcinella, che dalla scena torna sulla tela. Ma in questo caso la strategia espressiva è completamente diversa da quella dei volti, in quanto si parte dal bamboccio, dalla serialità dell’immagine, dalla ripetizione stereotipica precostruita, che conserva quasi sempre la stessa posizione per poi apportare, aggiungere, come avviene in ogni serialità che si rispetti, cambiamenti e varianti. E queste ripetizioni sono importanti perché costruiscono una storia, sono i tasselli di un’evoluzione concettuale dove ciascuno rappresenta anche una stazione simbolica. Abbiamo così il Pulcinella alfabeto, quello strillone, il manoscritto, quello sanguinante o che lancia saette di fuoco… fino a essere assediato, contornato da teschi che lo conducono, alla fine, a ridursi all’essenziale umano, all’essicamento fisico che prende le forme del Pulcinella scheletro.
Tutte le strade portano lì. La morte è tematizzata, come elemento poetico e teatrale. Il mondo sulfureo e sotterraneo ritorna. Anche perché dietro a tutto ciò c’è un forte segno culturale che ci riconduce alle radici dell’autore, alle sue scelte espressive e artistiche, al panorama di una città che si alimenta della compresenza dei vivi e dei morti, che ha avuto i culti delle anime del purgatorio e dove i teschi veri o rappresentati sono un continuo ammonimento per (cercare, almeno) di migliorare la vita e le relazioni tra gli uomini.