A 40 anni dal sisma del 1980: un tentativo di analisi storica (di Lucio Garofalo)

Il 23 novembre di quest’anno ricorre il quarantennale di un terremoto devastante, che nel 1980 sconvolse una vasta area del Sud Italia con un’intensità superiore al 10° grado della scala Mercalli, ovvero una magnitudo pari a 6,9 della scala Richter. Fu una scossa tellurica lunghissima, che durò 90 secondi circa e fece tremare l’arco appenninico meridionale, radendo al suolo interi paesi in Irpinia e in Basilicata, le cui popolazioni furono decimate.
 
Il ricordo di quella esperienza suscita ancora oggi, in coloro che l’hanno vissuta sulla propria pelle, un coacervo di emozioni intense, angosciose, di inquietudine e sgomento, un profondo senso di dolore e di rabbia, che turbano ancora gli animi degli abitanti irpini e lucani. Si trattò del più catastrofico cataclisma che ha sconquassato il Sud Italia nella sua storia più recente, ossia dal secondo dopoguerra ad oggi, un immane disastro provocato dalla furia naturale ed aggravato da fattori di origine antropico-culturale (1).
 
Nei giorni successivi al sisma, vari analisti politici si azzardarono a muovere (non a torto) pesanti accuse di responsabilità politica e morale agli esponenti istituzionali, polemizzando sui ritardi, sulle lentezze e sulle carenze accusate durante le operazioni allestite in soccorso delle popolazioni colpite dal sisma: accuse che invocavano un’ipotesi agghiacciante di “strage di Stato” (2). La furia tellurica si abbatté in modo spaventoso sulle comunità irpine e lucane, ma in seguito la voracità degli “avvoltoi”, posti al vertice delle istituzioni locali, completò l’opera di saccheggio e devastazione del sisma. Tuttavia, fu proprio in seguito al terremoto del 1980 che venne istituita, in Italia, la Protezione Civile (3), una struttura operativa che costituisce un motivo di vanto per il nostro Paese per quanto concerne il livello di efficienza e tempestività negli interventi di soccorso in caso di “calamità naturali”, ma resta ancora arretrato, invece, sul fronte della prevenzione dei rischi sismici.
 
Qualche ricordo personale
 
Il 23 novembre 1980, ricordo che era una domenica insolita, caratterizzata da una giornata climaticamente calda, quasi primaverile, non certo autunnale. Quella sera, alle ore 19:35, io mi trovavo nel bar centrale del corso di Lioni, uno dei centri più disastrati dal sisma, e stavo seguendo in TV il secondo tempo di un incontro della serie A di calcio (4), quando si verificò una catastrofe inimmaginabile, impressa in modo indelebile nella memoria e nell’immaginario collettivo delle popolazioni locali e dell’intera nazione.
 
Prima di quella data infausta, Lioni, il mio “borgo natio”, era un paese vivo e dinamico, con una spiccata vocazione allo sviluppo commerciale ed artigianale. Lioni vantava già numerosi esercizi commerciali, diversi bar e locali pubblici, un pastificio, due tipografie e altre piccole aziende artigianali e industriali, addirittura due sale cinematografiche e quattro (se non erro) discoteche, o sale da ballo, vari istituti scolastici, due emittenti radiofoniche private, Radio Popolare Lioni (5) e Radio Giovane Lioni, e via discorrendo.
 
Oggi prevale una tendenza abbastanza diffusa a rimpiangere e ad idealizzare il tempo antecedente a quel maledetto 23 novembre 1980. Fu un giorno orribile che, per una sorta di meccanismo di rimozione inconscia, si tende a derubricare dal calendario e dalla nostra mente, per non soffrire. Poi, ogni anno ricorre puntualmente il 23 novembre e noi non possiamo non ricordare.
 
In merito ai “ricordi personali” rimando opportunamente alla lettura delle “note integrative” contenute nell’ultimo paragrafo del presente articolo.
 
Una “data-spartiacque”
 
Per le popolazioni che conobbero la furibonda violenza tellurica di quel sisma (non senza la correità politica ascrivibile ad azioni umane rovinose) il 23 novembre è una data che innesca una sequenza di ricordi strazianti, di risvolti emotivi che hanno scombussolato gli animi e le esistenze personali degli abitanti. All’evento sismico seguì una lunga fase di emergenza e ricostruzione urbanistica, contraddistinta da decisioni politiche fin troppo controverse e discutibili, assunte dai gruppi politici dirigenti dell’epoca, nazionali e locali.
 
Per tanti miei conterranei il 23 novembre 1980 ha costituito un avvenimento traumatico, all’origine di lutti dolorosi, è una “data-spartiacque” che non figura solo sul calendario, ma nelle coscienze. La definizione simbolica ed evocativa di “data-spartiacque” suggerisce l’idea che da quel giorno le nostre esistenze sono state sconvolte bruscamente, con inaudita violenza, sia dal punto di vista fisico-materiale ed emotivo, sia sotto il profilo relazionale, nella misura in cui è regredito il livello di civiltà e di umanità dei rapporti interpersonali. Tale regressione si è disvelata in una misura inversamente proporzionale alla diffusione di forme di benessere fittizio, ossia prettamente economico-consumistico. Il sisma ha stroncato centinaia di vite, ha stravolto interi territori e comunità umane, lacerando le coscienze interiori e la sfera degli affetti più intimi di ciascuno. I rapidi e caotici mutamenti avvenuti negli anni seguenti hanno causato un progressivo imbarbarimento antropologico, che si è insinuato nei gesti, nei corpi e negli atteggiamenti più comuni ed elementari delle persone, alterando le relazioni sociali e frustrando ogni istanza di giustizia sociale ed ogni aspirazione di rinascita collettiva (6).
 
Il graduale ritorno ad una condizione di “normalità” ha comportato un lento percorso storico, dispiegatosi negli anni ’80 e ’90, fino ad arrivare ai primi anni del 2000, durante i quali le famiglie irpine hanno cresciuto i propri figli nei gelidi container prefabbricati, le cui pareti erano rivestite in amianto.
 
La ricostruzione, la Legge 219 e l’industrializzazione delle aree interne
 
La conclusione della lunga fase dell’emergenza post-sismica, il sospirato completamento dell’opera della ricostruzione degli agglomerati urbanistici, lo smantellamento tardivo e faticoso delle aree prefabbricate, sono stati alcuni interventi che si sono conclusi solo in tempi relativamente recenti (7).
 
Gli interventi della ricostruzione urbanistica, oltre che stentati, lenti e carenti, non sono stati indirizzati da una pianificazione politica lungimirante e razionale, finalizzata al recupero ed al consolidamento del tessuto civile di una convivenza democratica all’interno delle comunità locali, favorendo ed espandendo gli spazi di aggregazione e di partecipazione politica e sociale, che rendono vivibili le relazioni interpersonali e rendono vivi gli agglomerati abitativi, che altrimenti si riducono in uno stato di “residenze-dormitorio”.
 
Nella lunga ed animata fase dell’emergenza, le autorità politiche locali hanno attinto ampiamente agli ingenti fondi assegnati dal governo per la ricostruzione delle zone terremotate, “ampliate” per una sorta di “alchimia” politica anche ad aree geografiche non gravemente disastrate, al solo fine di privilegiare interessi economici di “clan”. La Legge n. 219 del 14 maggio 1981 prevedeva un massiccio stanziamento di sessantamila miliardi (!) delle vecchie lire per finanziare, tra l’altro, un piano di industrializzazione delle aree interne. Si attuò la dislocazione di macchinari ed impianti industriali, spesso obsoleti dal punto di vista tecnologico, che provenivano dalle aziende del Nord Italia, trasportati nella realtà di territori assai impervi e tortuosi, in cui non esisteva ancora una rete moderna di trasporti e di comunicazioni (8).
 
Fu varato un piano di (sotto)sviluppo che ha svelato nel tempo la sua natura deleteria ed alienante, i cui effetti sinistri hanno arrecato guasti all’ambiente e all’economia locali. Per inciso, serve ricordare che il contesto in cui fu attuato è quello delle aree interne di montagna, che in quegli anni erano assai difficili da accedere e praticare, specie per impianti industriali di pianura. Occorre menzionare l’edificazione di alcune aziende già decotte in partenza, “cattedrali nel deserto” come, ad esempio, l’ESI SUD, la IATO (9) ed altri noti insediamenti (im)produttivi, in gran parte falliti, i cui dirigenti, perlopiù del Nord Italia, hanno installato i loro stabilimenti nelle aree terremotate solo per intascare i finanziamenti previsti dalla Legge n. 219.
 
Il progetto di sviluppo avviato nel dopo-terremoto era destinato a fallire sin dall’inizio, gestito attraverso logiche prevalentemente clientelari, volte a privilegiare l’insediamento di imprese estranee alle realtà locali, che non avevano il minimo interesse a valorizzare le risorse, le potenzialità e le caratteristiche dei territori, né a rispondere alle esigenze del mercato locale, o a promuovere le produzioni agricole ed artigianali autoctone, bensì solo a sfruttare la manodopera a basso costo, insinuando un circolo vizioso e perverso di sottosviluppo, di cui stiamo pagando tuttora le conseguenze (10).
 
Le potenzialità locali
 
Occorre ricordare che le risorse vitali dei nostri territori sono da secoli nei comparti dell’agricoltura e dell’artigianato. Si pensi solo all’altopiano del Formicoso, autentico “granaio” dell’Irpinia, dove qualcuno, all’apice delle istituzioni, decise di allestirvi una mega-discarica (11). Lascio a voi immaginare con quali esiti. Si pensi ai rinomati prodotti agroalimentari locali, come il vino Aglianico di Taurasi o la castagna di Montella, solo per citare quelli a “denominazione d’origine controllata”. Si tratta di enormi potenzialità, redditizie anche a livello occupazionale, che consistono nelle bellezze intrinseche in uno straordinario ambiente storico-naturalistico e nelle possibilità di un turismo ecologico, eno-gastronomico (12), culturale, archeologico, mai valorizzate in una misura adeguata dalle istituzioni locali.
 
Negli anni ‘80, l’Irpinia era la provincia che “vantava” il primato nazionale (!) degli invalidi civili e dei pensionati, un triste ed osceno primato, se si considera che in larga parte si trattava di falsi invalidi (13), di giovani con meno di 30 anni, in grado di guidare automobili, correre e praticare sport, scavalcare i soggetti sani nelle graduatorie delle assunzioni, di assicurarsi i migliori posti di lavoro, di fare carriera grazie alle raccomandazioni, ai favori elargiti dai “ras” politici locali, faccendieri ed intermediari del potente “signorotto” che regna da decenni nel feudo di Nusco e dei Comuni limitrofi.
 
Nelle zone terremotate dell’Irpinia l’Inps ha costituito il principale erogatore di reddito per migliaia di famiglie. Ciò era possibile solo grazie a manovre clientelari ed all’appoggio di figure importanti della società, a cominciare dai medici e dai servizi sanitari in buona parte compiacenti, se non complici.
 
Il sistema di potere demitiano
 
Gli enormi sprechi di denaro pubblico, impiegato per alimentare un vasto e capillare sistema assistenzialistico e clientelare, sono anche all’origine dell’attuale crisi sanitaria irpina e campana e di altre gravi emergenze locali.
 
La rete clientelistica ed assistenzialistica in Irpinia si delineava come un apparato scientificamente organizzato, volto a garantire con efficacia la perpetuazione di un assetto di potere politico-affaristico simile ad una “piovra”, che con i suoi tentacoli si è impadronita della “cosa pubblica”, occupando i posti rilevanti della macchina statale, scongiurando qualsiasi rischio di instabilità politica e di mutamento radicale della società irpina (14).
 
L’apparato protezionistico e assistenzialistico era quasi onnipresente, nella misura in cui seguiva, “accudiva” e condizionava la vita delle persone dalla culla al loculo, a patto di concedere in cambio i propri voti in ogni circostanza in cui era richiesto. Molti sindaci e amministratori locali sono ancora designati perlopiù con la “benedizione dell’Uomo del monte”, che fa e disfa le cose a proprio piacimento, vale a dire costruendo o affossando entità e maggioranze amministrative, ed indicando persino i nomi dei candidati all’opposizione (15).
 
Nel quadro di un simile apparato di potere si risolvono e dissolvono gli attriti locali tra chi detiene le redini dell’amministrazione e chi (sulla carta) esercita l’opposizione, tra sistema ed anti-sistema, precludendo ogni possibilità reale di ricambio ed ogni ipotesi di mutamento della politica locale, soggetta ai capricci e ai ricatti di San Ciriaco, la testa pensante e pelata della “piovra”.
 
In Irpinia, la “piovra” (intesa come una metafora di un potere tentacolare, che avvinghia le persone) ha sempre gestito ed elargito posti di lavoro, appalti, subappalti, rendite, prebende, forniture sanitarie, in tutta la provincia, creando un vasto sistema di natura clientelare e parassitaria, composto da decine di migliaia di addetti del pubblico impiego, del ceto medio, nonché di liberi professionisti, che hanno concesso i loro voti per anni ai notabili, ai referenti e ai “dinosauri” della Democrazia Cristiana e poi ai suoi eredi, sparsi sia a destra che a manca. Si spiega in tal guisa come tale struttura sia riuscita a preservarsi, resistendo agli scossoni politici e giudiziari degli anni Novanta, scampando agli scandali e alle inchieste dell’Irpiniagate (16) e persino alla bufera giudiziaria di “Mani Pulite” agli inizi degli anni ‘90.
 
Nel frattempo si è assistito ad un processo di “mutazione antropologica” della società irpina (17), in ritardo rispetto al contesto nazionale, ma che ha ricevuto un’improvvisa accelerazione storica proprio dopo il sisma del 1980.
 
La “mutazione antropologica” e lo “spaesamento” dei piccoli paesi
 
In seguito all’avvento della cosiddetta “globalizzazione economica”, la società irpina ha conosciuto una rapida, improvvisa, quanto convulsa spinta di accelerazione storica, non corrispondente ad un effettivo progresso civile.
 
Nei paesini del comprensorio altirpino (la maggior parte di questi centri conta meno di quattromila abitanti, perlopiù anziani) convivono piaghe antiche e nuove problematiche: la disoccupazione e la precarietà economica; le forme di dipendenza (alcool e sostanze stupefacenti, ma non solo) che attanagliano le giovani generazioni, “effetti collaterali” di una modernità fallace e distorta, prettamente consumistica; lo spopolamento crescente dei piccoli borghi (18) e la nuova emigrazione di masse non più composte da contadini analfabeti, bensì da giovani istruiti con elevati livelli di scolarizzazione (19).
 
Anche in Irpinia l’effetto più doloroso scaturito dal fallimento di un’idea di sviluppo alienante, calato dall’alto in modo verticistico negli anni della ricostruzione, si è tradotto anche in una drammatica crisi dei rapporti umani, in un imbarbarimento che ha svilito le relazioni sociali, improntate sempre più all’insegna di uno schema esistenziale feticistico, quello della merce e del profitto, trasmesso alle giovani generazioni come unico scopo della vita.
 
È un modello di “sviluppo” che ha creato nuove forme di sperequazione, ha avvelenato le interazioni umane, aggravando le disuguaglianze già esistenti e generando nuove ingiustizie e contraddizioni sul versante materiale e socio-culturale. Si sono così determinate nuove sacche di emarginazione e di miseria, esasperando uno stato di precarietà e di sfruttamento già esistente in contesti socio-culturali assai omologanti ed alienanti per svariate ragioni.
 
Rispetto a tali fenomeni sociali le “devianze giovanili”, i suicidi e le nuove dipendenze, sono i sintomi più inquietanti di un diffuso malessere esistenziale che assale le generazioni più giovani e i soggetti più vulnerabili anche nei piccoli borghi di montagna, che un tempo erano reputati, in base ad una visione idilliaca e idealizzata, “oasi felici”. Da anni l’Irpinia e la Lucania si contendono il macabro e triste primato dei suicidi (20) nel Sud Italia.
 
Il potere dei “Gattopardi” locali
 
Negli ultimi 40 anni di storia si è perpetuato in Irpinia, in modo cinico ed arrogante, un potere paternalistico e clientelistico, che ricatta i soggetti sociali più deboli, riducendo le libertà dei singoli individui ed influenzando gli orientamenti politici delle persone, costrette in uno stato di sudditanza ed esautorate di ogni diritto di cittadinanza, al fine di conservare gli ingenti serbatoi di voti che alimentano il potere politico dei notabili locali. I rapporti e gli equilibri di potere locali si preservano in modo spavaldo e spregiudicato.
 
Per tali ed altre ragioni servirebbe un impegno politico nuovo, incisivo e corale, in grado di concepire e propugnare una trasformazione radicale di una realtà che è statica da decenni, co-agendo con tutti i soggetti interessati ad un reale mutamento, non di mera facciata, bensì di sostanza. Le popolazioni locali versano in condizioni di ricattabilità e soggezione verso una “casta digerente” (adopero una locuzione sarcastica) ormai vetusta ed autoreferenziale: un assetto di potere che si è incancrenito e sclerotizzato da troppi anni. È un potere che applica metodi di gestione anacronistici, sempre meno efficaci, alla stregua del classico “Gattopardo”, cosciente che tutto debba mutare, affinché nulla cambi e tutto resti intatto come prima.
 
Il mio apporto di idee è solo un tentativo di interpretazione storica e politica di uno stato di cose presente nella mia realtà, per provare, se possibile, a modificarla. L’attesa di riscatto sociale delle popolazioni colpite dal sisma e dagli scempi che, nella fase storica post-sismica, sono stati consumati in modo disinvolto e spudorato, reclama a gran voce un rinnovamento reale e positivo, ben sapendo che non conviene mai ridurre temi complessi in schemi oltremodo semplicistici, poiché ciò diventa controproducente e fuorviante.
 
La realtà non è mai semplice come appare, ma è contraddittoria e mutevole, e la sua conoscenza esige un valido metodo critico-investigativo in grado di cogliere tale complessità. All’uopo occorre avvalersi di diversi strumenti di indagine, inclusa la riflessione filosofica che, tuttavia, non è mai autosufficiente ed esaustiva, ma esige l’apporto di altre discipline di studio e conoscenza. Inoltre, presuppone l’intervento della Politica, concepita e vissuta con la P maiuscola, in termini di partecipazione diretta e di coinvolgimento democratico delle comunità locali, in un’ottica orizzontale ed estesa. Un protagonismo di massa che non si è mai dispiegato nella realtà, tranne brevi, episodiche parentesi nell’immediata emergenza post-sismica.
 
Note integrative e altri ricordi personali
 
Ho ritenuto giusto inserire alcune note integrative al termine della mia riflessione sul quarantennale del terremoto del 1980, per completare il più possibile la narrazione storica, renderla più onesta ed equilibrata rispetto alle vicende di cui ho raccontato quasi esclusivamente le “ombre”, per cui conviene evidenziare anche le “luci”. Il mio interesse primario, in questo tentativo di ricostruzione, è stato di riassumere gli aspetti più alienanti e regressivi emersi nell’esperienza post-sismica a partire dal 1980 fino ad oggi.
 
Innanzitutto, è doveroso ricordare ed elogiare l’impegno spontaneo e disinteressato di chi stava al di là delle barricate e combatteva con la visione di un avvenire più fulgido per la gente irpina. Occorre commemorare i momenti esaltanti sotto il profilo della solidarietà, manifestata dagli “angeli del terremoto” (21), migliaia di soccorritori e volontari giunti da ogni angolo della penisola, che stimolarono l’impegno e la mobilitazione delle popolazioni locali, spinte da una speranza e un’attesa di cambiamento. È da ricordare l’attivismo volontario di centinaia, se non migliaia soggettività, sinceramente disinteressate, animate dal desiderio di riscattare la nostra terra martoriata e vilipesa dalle scelte scellerate delle classi dirigenti. Non si potrà mai dimenticare le testimonianze di amicizia e fraternità, gli attestati di generosità forniti dai volontari, che dimostrarono un’umanità enorme ed offrirono un impegno che rese davvero protagonisti i numerosi giovani provenienti da ogni zona d’Italia e d’Europa, portando soccorso materiale, assistenza e conforto morale alle popolazioni terremotate, per scavare sotto le macerie e salvare i sopravvissuti, per contribuire alle necessità della fase più immediata e dolorosa dell’emergenza post-sismica.
 
Ricordo la stagione storica in cui si costituirono i “Comitati popolari”, sorti per gestire e controllare in modo democratico le assegnazioni dei prefabbricati. Tali Comitati furono coinvolti anche in altri passaggi politici.
 
Mi sembra doveroso aprire una breve parentesi per ricordare l’esperienza storica di R.P.L. (acronimo di Radio Popolare Lioni), un’emittente radiofonica del mio paese ed uno strumento prezioso di controinformazione proletaria: Radio Popolare Lioni era attiva sin dagli anni antecedenti al sisma del 1980.
 
Rammento le discussioni collettive, i momenti di impegno e di partecipazione vissuti grazie alle iniziative intraprese dal “Coordinamento giovani Lioni”, che contribuì alla maturazione personale, civile ed intellettuale di diversi giovani della mia generazione. Durante tali esperienze ebbi occasione di mettere a frutto la mia passione, sia per la militanza che per la scrittura: in quel periodo ho pubblicato i miei primi articoli su testate giornalistiche autoprodotte da gruppi di giovani che posero in essere un bisogno esistenziale di protagonismo e di antagonismo, di autonomia politica, sociale e culturale rispetto alle istituzioni ed alle autorità nelle quali faticavamo a riconoscerci.
 
Ricordo le iniziative di critica e di controcultura a cui diede vita il “C.R.A.C.”, acronimo di Centro Ricreativo di Aggregazione Culturale, che in un certo senso chiuse la fase positiva di maturazione, emancipazione e protagonismo attivo nel corso della prima metà degli anni ’80. Anni che segnarono l’avvio dell’opera di ricostruzione. La ripresa di un impegno politico corale si registrò soltanto verso la fine degli anni ‘90 e gli inizi del 2000, grazie all’avvento del “movimento no-global” (22), che riuscì a coinvolgere, mobilitare ed entusiasmare le generazioni dei giovani, e anche dei meno giovani, in Irpinia.
 
A questo punto, mi preme chiosare ricordando che in alcuni cortei ed alcune manifestazioni che si tennero nella prima metà degli anni ‘80, a cui presero parte numerosi attivisti irpini, uno degli slogan più urlati ed eloquenti era: “Ai morti dell’Irpinia non basta il lutto: pagherete caro, pagherete tutto!”.
 
Le vicende storiche successive hanno dimostrato che a “pagare”, purtroppo, sono sempre gli stessi, vale dire i miserabili, i dannati e i reietti della società.