RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – Due autori per vicende complesse, ricostruite minuziosamente, grazie a un lavoro certosino su una mole di documenti acquisiti in 10 anni di ricerche. Il periodo esaminato va dal 1850, ovvero l’ultimo decennio della dominazione borbonica, che non poche aspettative aveva deluso, soprattutto nella borghesia, all’annessione al Piemonte, del Regno delle Due Sicilie. All’approssimarsi della crisi finale del Regno, la classe dirigente appare fortemente differenziata, almeno a un primo approccio: ci sono i vecchi ceti dirigenti di aristocratici e notabili, in gran parte conservatori, la borghesia e gli unitari, a loro volta divisi in moderati e democratici. Tutti sembrano avere un unico nemico comune: il contadiname, i braccianti. Il 70% della popolazione di Ariano (ma il dato si può estendere a tutto il Mezzogiorno), è costituito dalle classi popolari, lavoratori della terra, contadini e piccoli braccianti, dalle condizioni di vita precarie e di lavoro durissime. Il loro sogno è di possedere un pezzo di terra che gli consenta una minima autonomia economica, un’aspirazione difficile da realizzare poiché, aggirando ogni legge che andasse in quella direzione (da quelle del Riscatto del 1582 alle successive leggi di Murat, di inizio Ottocento), delle proprietà demaniali, continuavano ad appropriarsi in maniera truffaldina, sempre notabili e grandi famiglie di possidenti, mentre le autorità di Napoli nulla riuscivano a fare per fermarli. Il Risorgimento è in quel periodo di passaggio agitato dalla guerra, auspicata dalla classe dirigente meridionale, che, prima filo borbonica, ora prontamente transfuga, guardava al Piemonte per la salvaguardia dei propri interessi di classe, ovvero, prevalentemente la difesa della proprietà agraria. In vista della prossima fine dei Borbone e dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, si stava preparando la strada che attraverso una serie di insurrezioni locali, offrisse a Cavour il pretesto per giustificare un intervento diretto dell’esercito piemontese. Si decise, dopo accese discussioni, di proclamare un governo provvisorio ad Ariano per il 4 settembre 1860. Ma la scelta non si rivelò strategicamente felice, poiché una colonna borbonica di 4.000 uomini era in ritirata dalle Puglie, mentre gli Avellinesi evitarono di esporsi, in attesa degli eventi. Giunsero ad Ariano 400 patrioti, male accolti dalla popolazione, che si riunirono con i notabili del paese, ma non trovarono l’accordo, poiché tutti volevano entrare nel nuovo governo. La riunione fu fatta fallire in attesa degli eventi a Napoli, dove Garibaldi sarebbe arrivato tre giorni dopo. Ariano fu in preda a una rivolta, poiché una turba di popolani giunti al vescovado, chiese l’allontanamento di quanti erano venuti a turbare l’ordine pubblico al grido di: “Viva lu re!”. La città per quattro giorni sarà in preda alla cosiddetta anarchia popolare, sedata col sangue da una colonna garibaldina al comando dell’ungherese Turr, mentre nel frattempo la rivolta si è estesa anche a diversi paesi della provincia. Alla sua discesa a Napoli, Garibaldi come primo atto proclamò la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II formando un nuovo governo, mentre si procedeva alla repressione cruenta di ogni forma di ribellione, compreso il brigantaggio, che altro non era che la ribellione di contadini e braccianti stremati da condizioni di vita e di lavoro disumane e non quel fenomeno di malandrinaggio o ribellione all’ordine costituito, che si voleva far apparire. A conclusione del percorso risorgimentale, si assiste alla scomparsa dello Stato meridionale, che diviene parte di un complesso più ampio, con capitale Torino, mentre Napoli perde il suo ruolo di capitale. Il nuovo stato nasceva con incorporati i limiti e i problemi che ne avrebbero condizionato la vita fino ai nostri giorni: dualismo economico, asservimento di una parte del Paese agli interessi di un’altra, sistematica mistificazione dei fatti sotto montagne di retorica, scarsa qualità della classe dirigente. L’annosa “Questione meridionale” nasce al momento dell’Unità d’Italia e da allora, non è ancora stata risolta. Diverse le tesi in proposito: c’è chi sostiene che i retaggi del Sud, più che secolari, non siano mai stati superati e al momento dell’Unità, fossero talmente profondi da determinare i guasti successivi. L’altra è di tipo revisionista, e guarda al passato borbonico, come un’età dell’oro, sbaragliata dal processo di unificazione. La realtà di allora è difficile da far emergere, anche se recentemente uno studio di Vittorio Daniele e Piero Malanima cerca di farvi luce basandosi su dati dal 1861 al 2011. Emerge in particolare come al momento dell’Unità, il divario Nord-Sud fosse pressoché inesistente, che è cresciuto a partire dalla fine del Novecento, ha avuto un decremento negli anni 50/60, per accrescere di nuovo nei decenni successivi e fino a oggi. Gli ultimi dati Svimez, raccontano di una condizione che vede sempre più allargarsi il divario tra Nord e Sud del Paese. Con un PIL praticamente dimezzato, il Mezzogiorno appare come un territorio devastato e quasi privo di speranza di ripresa. Di chi è la colpa e quali azioni intraprendere per invertire la rotta? Forse il libro non fornisce le risposte, ma le ricostruzioni storiche possono aiutarci a capire e forse a elaborare idee per un necessario rilancio del Sud, che non può non partire da una solida base di conoscenza del proprio territorio e del passato che lo ha condizionato.
Floriana Mastandrea
Cesare De Padua Pasquale Giardino
ARIANO STORIA E ASSETTO URBANO
Il Risorgimento Volume II tomo 2
Dalle Due Sicilie al Regno d’Italia
Pag. 486 € 20