Una voce, una chitarra e un po’ di blues, di rock, di soul, di funky, di suoni arabi, di radici napoletane, di jazz, di salsa, di samba, di taramblù, quel posto magico dove la tarantella incontra Robert Johnson, ora anche di melòrock. Pino Daniele? Il nero a metà, l’americano della nuova Napoli che sognava di veder passare la nuttata, il mascalzone latino, il Lazzaro felice, l’uomo in blues, il musicante on the road, il neomadrigalista, cantautore che negli anni in cui dominava il messaggio non mise mai in secondo piano la musica, pur avendo cose da dire, e che cose. Giuseppe Daniele, napoletano del centro storico, classe 1955. Oggi che la sua carriera ricomincia da un’indipendenza discografica-artistica a cui ha da sempre aspirato, appare ancor più chiara e ricca e complessa e diversa da qualsiasi routine la parabola che l’ha portato dai vicoli dove non entra mai il sole alle hit parade, l’Olympia di Parigi, Umbria Jazz, l’Apollo di New York, il Festival di Varadero a Cuba, gli stadi di tutt’Italia, l’Earth Day al Circo Massimo, il Crossroad Guitar Festival di Chicago…. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta Pino inventa una nuova lingua, anzi un lingo, gioca con le melodie assimilate in piazza Santa Maria La Nova, i racconti di munacielli e belle ’mbriane delle zie, il rock e il jazz come sogno americano, il vento di rivoluzione che scuote Napoli negli anni dell’impegno che naufragherà nel disimpegno poi detto riflusso. Come Carosone riflette sull’America che è in lui e nella sua musica, utilizzando la rabbia al posto dell’ironia, un piglio da capopolo newpolitano al posto dello sfottò, che pure permea il suo canzoniere da Masaniello ma non troppo. Il suo leggendario supergruppo mostra all’Italia che nella canzone c’è un Sud competitivo, che sa parlare alla nazione intera anche usando il dialetto, segna l’apice del neapolitan power, ma anche la fine: quando il sogno collettivo dell’orgoglio vesuviano lascia il passo alle carriere soliste, Daniele prende il volo, ma ha già scritto pagine destinate a rimanere, fondendo la melodia partenopea con il rock-blues, la canzone di protesta con la saudade del Vesuvio. Il brano che dà il titolo al suo disco d’esordio, “Terra mia”, del 1977, sta a Partenope come “This land is my land” sta all’America di Woody Guthrie con un’aggiunta di sofferenza e consapevolezza storica che non è mai autocompatimento, ma il brano che apre il disco, “Napule è” è qualcosa di più, il canto di una generazione, l’ultima speranza prima della disillusione, poesia e rabbia, il dolore e il sogno impossibile di una città/nazione salvata dai ragazzini, anzi dai “criature”, dal loro canto ingenuo, pulito. E, sia detto senza dubbio alcuno, una melodia da applausi. Nel 1979 “Pino Daniele” mette insieme capolavori come “Je sto vicino a te”, “Chi tene ‘o mare”, “Je so’ pazzo”, “Chillo è nu buono guaglione”, “Ue man!”, “Il mare”, “Putesse essere allero”, E cerca ‘e me capì” con un’ispirazione che lascia allibiti per lucidità e varietà: mente la canzone d’autore italiana si piega al messaggio, lui la libera da ogni stilema, rischia le parolacce che lo fanno trasmettere alla radio, parla di diversità e di ecologia prima che i temi diventino di moda. Il sound è travolgente, attorno a lui i colleghi cantautori puntano solo sulle parole, qui c’è ritmo da vendere, grondano groove imparati nei locali degli americani della Nato a Napoli.
“Nero a metà”, omaggio a Mario Musella e prima autodefinizione in musica, è il disco del grande successo, l’incrocio definitivo tra melodie veraci e richiami rock applicati a raccontare sentimenti come l’”Alleria” o l’”Appocundria”, prima di dichiarare la propria passione: “A me me piace ‘o blues”. Nell’Italia degli slogan politici accompagnati da chitarre scordate, il treno del supergruppo newpolitano fa faville, quel blues latino apre il mitico concerto di Bob Marley a San Siro. L’apoteosi di quella prima stagione, l’apice e la fine di quell’orgoglio napoletano si registra il 19 settembre 1981: piazza del Plebiscito, allora un parcheggio e non certo il salotto buono della città, si riempie di duecentomila persone, nessune se le aspettava, forse è il primo megaconcerto italiano. Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito e uno straordinario James Senese accendono una notte tenerissima, indimenticabile.
Ma Pino, che pure cattura quella stagione in un altro lp epocale come “Vai mò” (1981) e in brani come “Yes I know my way”, “Viento ‘e terra”, “Sulo pe’ parlà” e “Have you seen my shoes”, è talento irrequieto, ha bisogno di guardare al mondo, Napoli non gli starà mai
stretta, ma il suo futuro ora è una raccolta impressionante di collaborazioni internazionali, di aperture ad altri suoni, altre storie.
“Bella ‘mbriana”, del 1982, parla di tradizioni dimenticate, anticipa la stagione della world music che sarà, eppure coinvolge jazzisti del calibro di Wayne Shorter ed Alphonso Johnson, continuando a mischiare napoletano, italiano ed inglese: “Tutta ‘n’ata storia” e “I got the blues” si muovono
tra monacielli ed antiche leggende della città nata con il canto delle sirene. Due anni dopo, “Musicante” incontra le percussioni brasiliane di Nanà Vasconcelos, la tromba terapeutica di Don Cherry e i suoni d’Africa, senza dimenticare il genius loci di “Lazzari felici” o la capacità di parlare di argomenti-tabù come quelli del contrabbando in mano alla camorra in “Stella nera”.
Dal vivo, poi, non ce n’è per nessuno, come sintetizza “Sciò live” (’84) che si spara i sassofoni solisti di Gato Barbieri e Bob Berg accanto a una sezione di fiati formata da Larry Nocella, Juan Pablo Torres e Adalberto Lara. “Ferry boat (’95) guarda ancora ai Sud del mondo, balla la “Dance of baia”, fa salire a bordo nuovi sessionmen stellari come Steve Gadd e Richard Tee. Il Festival di Montreux, il Canada, l’Olympia di Parigi, il Festival di Varadero a Cuba e l’Arena di Verona aprono le porte alla corrente del golfo che arriva con Pino, italiano da esportazione, ora anche produttore, di Richie Havens (“Non ci potevo credere, sono cresciuto con il mito di “Woodstock” ed ora lavoro
con l’uomo di “Freedom”) in “Common ground” (’83).
Esplorate le strade del blues, del jazz-rock, di quella che in quegli anni si chiama fusion, Daniele guarda sempre di più ai suoni del mondo, i concerti in Francia gli mostrano che esiste una musica “altra”, lontana dal dominio angloamericano, vicina tra l’altro a quella delle sue radici. “Bonne soirèe” (’87) è un canto latino, mediterraneo, africano, arabo, impreziosita dai contributi di Mino Cinelu e Jerry Marotta. L’arab rock inizia qui e prosegue in “Schizzichea with love” (’88), mentre continua anche la collaborazione con l’amico Massimo Troisi, per cui ha già scritto le colonne sonore di “Ricomincio da tre” (’81) e “Le vie del signore sono finite” (’87), prima di sfociare nel capolavoro di “Quando”, scritta con l’amico per “Pensavo fosse amore e invece era un calesse” (’91).
“Mascalzone latino” (’89) è un ritorno all’acustico, tra omaggi alla Magnani (“Anna verrà”) e San Gennaro (“Faccia gialla”), tra “Sambaccussì” e “Carte e cartuscelle”. Un disco delicato, importante, ma anche di transizione, mentre il fronte del palco fa registrare il tour europeo di “The night of the guitar”, supergruppo di virtuosi della sei corde che vede il napoletano al fianco di gente del calibro di Randy California, Robby Krieger, Leslie West, Phil Manzanera, Steve Hunter…
Gli anni Novanta incombono con un altro cambio di pelle, con un’altra svolta creativa: Un uomo in blues” (’91) sa cantare l’Italia che cambia: ”’O scarrafone” denuncia la xenofobia nell’aria con ironia e ritmo, mentre in “Che soddisfazione” garrisce la chitarra di Mick Goodrick e il titolo del disco, un successo in hit parade, gioca ancora una volta a trovare un nuovo appellativo per il cantautore. “Sotto ‘o sole” (’92) schiera la voce recitante di Troisi in “Saglie, saglie”, due anni dopo arriva il boom di “Che Dio ti benedica” con Ornella Muti protagonista del videoclip del brano che dà il titolo all’album, uno straordinario successo commerciale che presenta Daniele a una nuova generazione di fans e con lui i suoi ospiti d’eccezione: Chick Corea, Ralph Towner, ma anche Bruno De Filippi.
La forma canzone, la scelta dell’italiano come lingua principale, una maturità vocale evidente, il sound d’impatto sono le caratteristiche di questa nuova stagione, che dal vivo convive sempre con gli antichi splendori come testimonia il live “E sona mò” (’94). Un pop-rock coinvolgentissimo abbinato a raffinatezze strumentali e testi sempre più attenti all’allarme ecologico, come confermato da “Non calpestare i fiori del deserto” (’95) che – forte dei contributi di Jovanotti e di Irene Grandi – non a caso ritorna sulle strade della world music tra una vittoria al Festivalbar e due concerti con Pat Metheny, che peraltro arrivano dopo lo storico tour con Jovanotti ed Eros Ramazzotti.
Pino è l’uomo delle collaborazioni, non dei duetti tanto per fare, divide il palco o lo studio di registrazione con i grandi jazzisti come con Luciano Pavarotti, è sempre più un suonautore, lasciando spesso alla sua chitarra il compito di parlare per lui. Noa, Giorgia e Raiz degli Almamegretta sono le guest star di “Dimmi cosa succede sulla terra” (’97), forte di superhit come “Che male c’è” e “Dubbi non ho”, “Yes I know my way” (’98) rivitalizza l’antico cavallo di battaglia con Jim Kerr dei Simple Minds.
“Come un gelato all’equatore” (‘99) e “Medina” (2001) alternano l’italiano al napoletano, le canzoni d’amore a quelle più sociali, il pop al ritorno all’Africa (ci sono Faudel, Salif Keta e Lotfi Bushnaq al fianco di Peter Erskine, Victor Bailey, Rachel Z, Miriam Sullivan, Mike Manieri), ai temi antirazzisti, alla collaborazione con i 99 Posse, a confermare l’interesse del nero a metà per i suoi nipotini, la sua volontà di intercettare sempre le novità di qualità che arrivano dalla sua Napoli. “Zio Pino” lo chiamano, con affetto Raiz come Zulù, a spiegare quanto sia importante la sua lezione anche per le scene successive.
“Passi d’autore” (2004) è forse il più ambizioso dei progetti danieliani, tra omaggi a Che Guevara, Django Reinhardt e Maradona, tra world music e il richiamo ai madrigali di Gesualdo da Venosa. Mentre critica e nostalgici vorrebbero inchiodarlo al suo passato, Pino studia musica, cerca nuovi stimoli e nuovi approdi. “Iguana cafè” (2005) è una sintesi, spiega il sottotitolo, di “Latin blues e melodie” che riprende “It’s now or never”, ovvero “’O sole mio” nella versione presleyana, come
singolo, reclamando insieme il doppio passaporto di napoletano d’America.
Prima c’era stato un altro supertour, quello con Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e Ron, questa volta fortunatamente testimoniato da un cd e un dvd, in cui i quattro si dividono e si scambiano i repertori come mai visto prima, né dopo, nella storia della canzone italiana.
“Il mio nome è Pino Daniele e vivo qui” (2007) ritrova Tony Esposito e prepara la strada a un evento storico, quello del triplo cd antologico con inediti “Ricomincio da 30”, che cita Troisi e riforma il supergruppo (Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Rino Zurzolo e JoeAmoruso) con l’aggiunta di Chiara Civello e Al di Meola. L’8 luglio il ritrovato dream team vesuviano espugna di nuovo piazza del Plebiscito, ma questa volta ci sono pure Giorgia, Irene Grandi, Avion Travel, Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio.
Poi è storia recente tra “Electric jam” del 2009 con il rap di J-Ax e “Boogie boogie man” dell’anno successivo, in cui, oltre all’ex Articolo 31 spuntano Mina, Franco Battiato e Mario Biondi per continuare il gioco delle rivisitazioni eccellenti di un passato che non passa perché è ancora presente, così presente da brillare persino con la griffe di Eric Clapton che cesella alla sua maniera una “Napule è” nell’estate 2011 in quello stadio di Cava de’ Tirreni che ha già visto protagonista tante volte il Lazzaro felice.
Ora è il momento di “La Grande Madre” e del melòrock.
Vai Pino, vai ancora, vai mò.